Capelli

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C’era tornata di nuovo. Sua nonna era morta da una settimana e allora c’era tornata. Come diceva Aristotele essere irragionevoli è un diritto umano, magari era pure un suo diritto. A volte lei si sentiva una sopravvissuta, come quella di quel telefilm, I sopravvissuti, quella che cercava il figlio, girava a vuoto bevendo latte e sfuggiva a un virus che non si sapeva da dove fosse venuto, perché attaccasse il genere umano e perché ignorasse lei e l’aveva fatta restare sola a guardare le pleiadi insieme ai fantasmi e l’istinto a sopravvivere non l’abbandonava, però, era ancorato a lei e caparbiamente andava avanti a ricostruire e a compiere ancora quei gesti che la facevano umana. Si era fermata in una profumeria lungo la strada. Aveva pochi soldi, aveva sempre pochi soldi, aveva comprato alcuni prodotti che erano in offerta. Era rimasta immobile a guardarlo senza vederlo veramente, l’armadillo celeste, quell’enorme ospedale, prima di entrare. Le si era avvicinata un’infermiera gentile con il culo basso e il rossetto rosa che l’aveva colpita perché l’aveva visto solo alle pornostar dell’est, con un camice bianco strappato sul taschino e il suo sguardo era stato calamitato sullo strappo tutto il tempo che le aveva parlato, le aveva chiesto chi cercasse e aveva usato una voce stanca e rassegnata, come se ci fosse abituata a parlare con gente che non l’ascoltava, le aveva sussurrato il nome di sua zia e l’infermiera l’aveva accompagnata alla sua stanza. Sua zia dormiva e aveva detto all’infermiera che poteva lasciarla lì.
“Posso lavarle i capelli quando si sveglia?”
L’infermiera le aveva risposto mentre andava via buona fortuna, a volte non vuole neanche lavarsi. Mentre la osservava dormire s’era ricordata di quel pomeriggio alla casa al mare, era piovuto violentemente tutta la notte e le strade erano allagate e loro erano relegate in casa, mentre gli adulti tentavano di arginare l’acqua che entrava dovunque, lei era seduta sulla sua sedia a dondolo, con le gambe sul bracciolo e le altre erano sedute in circolo per terra. Non ricordava come fossero arrivate a fare questo gioco scemo, facevano sempre giochi scemi, ma questo sembrava proprio il più scemo: dovevano dimostrare che nessuna aveva ereditato la vena di pazzia della famiglia facendo cose strane.
“Sicuramente ce l’ha Alfredo,” aveva esclamato Stefano e avevano riso. Se il corpo è pazzo, la mente non lo è, aveva detto Valeria e come ragionamento non faceva una piega.
Aveva iniziato Rosella, la più grande, aveva fatto alzare Stefano e una di fronte all’altro, alla distanza di un braccio, gli aveva chiesto di fissarle intensamente gli occhi.
“Come hai fatto?” aveva esclamato Stefano, quasi spaventato. Allora tutte si erano alternate a fissarla negli occhi. Faceva oscillare le iridi celesti, come se vibrassero ed effettivamente era impressionante. Poi era toccato a Licia che si era concentrata un po’ e aveva iniziato a muovere le orecchie, ma non tutto l’orecchio, solo la parte alta del padiglione auricolare e tutte ridevano stese per terra rotolandosi. Quindi era stata la volta di Valeria e lei aveva iniziato a scrocchiare con un rumore secco e molto forte le dita tra di loro. Erano state qualche minuto a discutere se potesse andar bene come cosa strana, cioè lo sapevano fare tutti, ma alla fine erano giunte alla conclusione che Valeria lo facesse più rumorosamente e avevano decretato che no, non era Valeria che aveva ereditato la vena di pazzia. Infine era arrivato il turno di Stefano ed era curiosa di vedere cosa avrebbe fatto, pensava sempre che suo fratello non fosse capace di fare niente, lo pensano tutti dei propri fratelli. E suo fratello non era capace di fare niente, sul serio. Lui aveva fatto una cosa strana e soprattutto l’aveva fatta benissimo, considerato che era il più piccolo tra di loro, si era afferrato le palpebre e le aveva girate e aveva messo gli occhi in bianco e le altre lo avevano applaudito.
Poi l’avevano guardata, lei guardava loro, una per una in viso. L’aria era immobile e le sembrava di respirare al rallentatore. Stefano aveva sospirato, come a dire lasciatelainpacesisa e lei, allora, senza alzarsi dalla sedia aveva tolto la ciabatta blu, quella che le era toccata quell’anno, nella casa al mare c’erano sempre un mucchio di ciabatte di tutta la gente che l’aveva preceduta e sua madre non comprava mai le ciabatte, tanto qualcosa per te e tuo fratello si trova sempre, diceva. Aveva tolto la ciabatta destra, aveva alzato il piede davanti ai loro visi e aveva aperto le dita fino a che ogni dito era lontanissimo dall’altro, come se avesse le dita strabiche. Avevano fissato in silenzio il piede.
“È Alfredo” aveva sentenziato Valeria e nessuno l’aveva contraddetta.
Sua zia si era svegliata e le sorrideva da un po’ con la sua bocca martoriata.
“Ciao” aveva lo sguardo fisso sulla busta della profumeria. Non sapeva se si ricordasse di lei, ma era come se si aspettasse di vederla là, come se si fosse addormentata con lei accanto e che fosse una cosa ordinaria che l’avesse osservata mentre dormiva e si svegliava.
“Cosa mi hai portato?” aveva chiesto curiosa ed eccitata come una bambina mentre scivolava giù dal letto per alzarsi.
“Volevo lavarti i capelli. E metterti lo smalto, se vuoi.”
“Che colore? Lo smalto, che colore?”
Si era sentita in imbarazzo, non ricordava che colore avesse preso, forse per lei era importante. Aveva frugato nella borsa e preso lo smalto: rosso.
“Rosso” aveva mormorato con la paura che potesse arrabbiarsi.
“Mi piace il rosso.”
Sua zia l’aveva presa per mano e l’aveva portata nel bagno delle donne. Avevano lavato velocemente i capelli, poi erano tornate in camera e lei le aveva fonato i capelli con una spazzola tonda che aveva comprato, si era messa dietro sua zia che era seduta sull’unica sedia della stanza e non è che puzzasse, ma aveva l’odore di spirito che aveva sempre associato alle punture e l’aveva infastidita, ma aveva continuato a fonare ed era venuta decentemente per il suo primo lavoro da parrucchiera.
S’era seduta sul letto e lei s’era sistemata a gambe incrociate sul pavimento ai suoi piedi, le aveva fatto il pedicure con le crema emolliente che aveva comprato e sua zia ridacchiava continuamente, portandosi la mano davanti alla bocca e tremando tutta, ma senza fare niente per fermarla. Infine le aveva passato lo smalto sulle unghie e sua zia guardava i suoi piedi affascinata, come se non li avesse mai visti prima.
“Non bisogna dirlo alla mamma, altrimenti me lo fa togliere. Come si può fare, eh? Che beeello. Come lo posso nascondere? Mi metto i calzini, eh?”
Allora aveva cominciato a ridere anche lei forte e sua zia batteva le mani e aveva cominciato a urlare chebeeellochebeeello. Era arrivata l’infermiera, quella con il camice strappato, le aveva guardate sbigottita e poi aveva cominciato a urlare pure lei.
“Smettetela! Adesso arriva il dottore se non la smettete. Smettetela, ho detto!”

(Foto dal film “Un angelo alla mia tavola” di Jane Campion)