Quel freak lì

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Non so, forse è perché sto invecchiando male, malissimo, ma ho già nostalgia del fenomeno da baraccone con la parrucca che era Richard Benson, del fenomeno da baraccone che era lui, ma forse ero e sono io, ho nostalgia di quella liceale freak che rideva della stranezza di questo metallaro prestato alla tv, ma anche della tv prestata a questo metallaro, che neanche il Tevere l’ha voluto quando s’è buttato per amore giù da Ponte Sisto, quella freak che rideva di Richard Benson e subito dopo le saliva la pena e le veniva da piangere, quella freak lì che riconosceva un altro freak, ma un freak molto più coraggioso che non si nascondeva pure se tutti lo schifavano, ma poi un po’ lo amavano, perché anche in quelli più strani e diversi da noi c’è sempre un po’ di noi e in fondo ci schifiamo e ci amiamo tutti un po’. Un paio di anni fa, quando mio figlio liceale l’ha ritirato fuori da YouTube per quel rito di iniziazione dei liceali romani che passava- perché ora è passato- attraverso Richard Benson, attraverso la conoscenza di un personaggio così, se no non sei abbastanza fico e liceale qui, ho capito che certe cose non cambiano mai, che siamo tutti freak, pure quelli che fanno finta di non accorgersi di essere freak.

Ciao, Richard Benson, o come cavolo ti chiamavi veramente.

Il mercante

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A chi passa ore a scorrere ciò che offre Netflix senza riuscire a scegliere un film o una serie tv, auguro di trovare piccoli gioielli, come quello che ho trovato casualmente io: The trader (Il mercante), un docufilm breve, troppo breve, di una regista georgiana, Tamta Gabrichidze. Certo, tre anni fa ha vinto il Sundance, uno dei più importanti festival cinematografici per il cinema indipendente, ma non è il logo del famoso festival che mi ha attirato in questo mondo di ambulanti, bambini con cravatte, villaggi fangosi e patate, bensì l’immagine della locandina con una vecchia georgiana con un magnifico fazzoletto rosso in testa e un profilo da moneta bronzea.

Il breve film di 23 minuti è pieno, in effetti, di questi volti ripresi in drammatici primi piani alla Ejzenstein che si alternano a campi lunghissimi con i paesaggi lirici georgiani di campi di patate, fango, acquitrini. La figura del venditore ambulante, Gela, è seguita dalla videocamera in questo viaggio breve e intenso verso Tbilisi attraverso vari villaggi dove una umanità poverissima e dignitosa baratta con le patate, loro unico avere, vestiti, giocattoli e oggetti di seconda mano. I dialoghi sono ridotti all’osso, contano i volti, i gesti, i giochi dei bambini e il lavoro nei campi dei protagonisti. Lo sguardo tenero ed ironico insieme della regista ci mostra il suo paese, una realtà rurale che pare uscita da uno dei primi quadri di Van Gogh che aveva infatti come protagonisti proprio dei coltivatori di patate.

La cinepresa sembra patire insieme agli uomini e alle donne raccontate, come il pennello e il tratto di Van Gogh.

Aspetto con curiosità il primo lungometraggio della giovane regista: sembra sia in lavorazione.

Divertissement

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Sarah Bernhardt

La Signorina demodé

sulla rana seduta del Quartiere Coppedè

come fosse un canapè

col nero basco sulle ventitré

legge Baudelaire bevendo caffè,

le gambe velate, cocotte da cliché

-oh mammina, una cattiva signorina-

ma da Corviale una rossa coupé

urla, strombazza: Aho, ‘a Signorina Gnè Gnè.

Giorgio Conte, Gnè Gnè

Cose corte, cose brevi2

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Mi piacciono molto le vignette e i fumetti, forse mi rimandano alla mia infanzia curiosa verso tutto quello che c’era in casa da leggere, La Settimana Enigmistica insieme ai settimanali di fumetti L’Intrepido, Lanciostory e Skorpio.

Alcune vignette, poi, me le conservo ed ogni tanto me le rileggo perché mi stanno dicendo qualcosa, proprio a me, e per risollevarmi la giornata: una è questa di Cavez.

Cose corte, cose brevi1

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È autunno, con tutto il foliage e la pioggia propri della stagione, si sta più in casa, si guarda più la tv e figlio Piccolo (quasi ex) mi consiglia Squid Game. Intuisco che i lamenti e i gorgoglii vari che provenivano dal suo tablet nel relax pomeridiano dopo i compiti erano i dialoghi di attori coreani non doppiati. Abituata agli anime giapponesi non sono riuscita a cogliere bene la differenza.

Vedo la prima puntata, Un due tre stella, e mi fermo lì. Orwell in salsa di pomodoro coreano: non ce la posso fare in autunno. Forse in inverno.

Preferisco leggere, anche se sono in un periodo di profonda intolleranza verso la finzione, e allora biografie e autobiografie, da Limonov a Marina Abramović: che vite!

Le mie liste tristi e consolatorie insieme

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Due giorni dopo, quando la donna slovena partì, Jasper Gwyn le lasciò una lista da lui compilata di tredici marche di whisky scozzese. – Cosa sono? –, chiese lei. –Bei nomi. Te li regalo.–
(A.Baricco, Mr. Gwyn, Feltrinelli)

Faccio sempre un sacco di liste. Della spesa, di cose da fare, di cose da ricordare, soprattutto per il lavoro, di cose da buttare, di cose che amo, di quelle che odio. Liste di tutto. Persino da ragazzina facevo poesie-liste, ma per fortuna con quelle ho smesso presto. Da qualche anno le metto nelle Note del mio cellulare, il più delle volte le cancello stizzita perché puntualmente mi dimentico di guardarle e poi quando me le ritrovo davanti non so che farmene. Sono inutili, eppure quando le scrivo o le penso mi sembrano necessarie. Alcune delle mie liste, tipo quella dei miei film preferiti di sempre o quella delle mie canzoni, invece, mi fanno tenerezza, perché molte cose sono mutate nella mia vita nel tempo, ma queste mie liste no. Qualche volta ho aggiunto qualcosa, ma da anni non aggiungo niente. Ho quindi compilato queste liste di libri, film e musica che più ho amato e che più mi hanno commosso-e mi commuovono ancora-quando li ho letti, visti, ascoltati, giusto per intristire chi legge. L’idea di fondo-e che sento di suggerire a tutti in una sorta di rito collettivo new age di rinascita nella lacrima (certo ognuno si dovrà fare le sue liste, non è che si può piangere tutti sulle mie)-da qualche anno a questa parte è questa: un letto sfatto, un piumone se non fa troppo caldo, kleenex sparsi intorno, io che piango come una fontana e mi ripasso le mie liste di film e libri, che sono piene di cose tristissime e poi mi sento meglio perché c’è una sorta di autoconsolazione, dopo che una si sbrodola in tutto quel suo muco, tracce di una chiocciola che va a caso chissà dove. Sono stata una ragazza sentimentale, ora mi sono evoluta in una magnifica signora piagnona.

I miei libri

1 Pel di carota, J. Renard

2 Storia di una capinera, G. Verga

3 Un uomo, una donna, un bambino, Erich Segal

4 Se questo è un uomo, Primo Levi

5 Il segreto di Luca, I. Silone

6 Eva Luna, I. Allende

7 Gente di Dublino, J. Joyce

8 Il diario di Anne Frank

9 Camera con vista, E. Forster

10 Il giovane Holden, J.D. Salinger

(Le poesie di Hikmet, ma anche quelle della Plath fuori lista, ma nella lista. E “Preghiera per mia figlia” di Yeats)

(Sono una piccola parte di libri che mi hanno commosso fino alle lacrime. L’ultimo libro è stato “Ogni cosa è illuminata” di J.Safran Foer, giusto per smentire il fatto che da anni non aggiungo niente)

I miei film

1 Incompreso, L.Comencini/ Deserto rosso, M.Antonioni

2 L’ereditiera, W. Wyler

3 Via col vento, V. Fleming

4 Voglia di tenerezza, J. L. Brooks

5 Affari di cuore, M. Nichols

6 Il monello, C. Chaplin

7 La vita è meravigliosa, F.Capra

8 Amore senza fine, F.Zeffirelli

9 Love story, A. Hiller

10 Solaris, A. Tarkovskji

(Fanny e Alexander e La fontana della vergine di I. Bergman fuori lista, ma nella lista insieme a Il colore viola e ET di S.Spielberg)

(Lo specchio della vita di Sirk! Da qualche parte bisogna infilarlo)

(Tutti, ma proprio tutti i film della Campion, e comunque io con il cinema una lista non la posso fare, non smetto più…)

(Freaks, T. Browning e Elephant man, D. Lynch)

(Wong Kar Wei, tutto)

(E J. Vigo e i suoi due bellissimi film)

(Splendore nell’erba di Kazan)

Levatemi questa lista, potrei attaccare pure con i telefoni bianchi.

La mia musica

1 Il trillo del diavolo, Giuseppe Tartini

2 Tutto il violoncello di Bach e la voce di Johnny Cash

3 Life on Mars? David Bowie

4 Anna verrà, Pino Daniele

5 Just like a woman, Bob Dylan

6 I want a little sugar in my bowl, Nina Simone

7 So lonely, the Police

8 Because the night, Patti Smith

9 Take me somewhere nice, Mogwai

10 Crazy, Aerosmith

(Se telefonando, Mina fuori lista ma nella lista insieme a Missing, Everything but the girl)

(Sound of silence, Simon&Garfunkel, la voce di Dolores O’Riordan e quella di Josh Homme)

(Anna e Marco e Futura di Lucio Dalla)

Non lo so perché li ho numerati…

(È un vecchio post di tre anni fa, era in bozza: le liste non sono cambiate, io un po’, forse).

Non sei mai uscita da questa scuola

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L’anno passato, prima che la pandemia ci esplodesse intorno, durante un colloquio mattutino con i genitori mi sono trovata davanti un marcantonio biondo, mio coetaneo, che mi ha stritolato in un abbraccio. Non sapevo chi fosse e mi sono sentita profondamente in imbarazzo. Mi ha chiamato per nome e mi ha detto “Ma tu non sei mai uscita da questa scuola!” Finalmente mi ha ricordato qualcuno, un ragazzino mingherlino e pluriripetente, che avevo avuto come compagno di classe durante l’ultimo anno di scuola media, forse un po’ invaghito di me, Gianluca V.

Da qualche anno avevo l’impressione che il mondo intorno a me si muovesse velocemente, che le persone cambiassero, molte in meglio altre in peggio, ma che io rimanessi sempre inchiodata al mio posto come un calciatore di un biliardino impolverato di un qualche bar di paese con gli specchi e le rifiniture in alluminio dorato e in cui non entra più nessuno, giusto Armando alle 7 di mattina per il suo caffè corretto alla anisetta.

Gianluca V. mi ha solo confermato questa impressione, ero proprio io quella immobile dentro quel biliardino, tra l’altro pure in difesa. Nella mia vita prima della laurea ho lavorato come fioraia nei mercatini, poi come accompagnatrice turistica in giro per l’Italia, infine una volta laureata e abilitata come docente precaria dove capitava, con una parentesi come impiegata ACI, un contratto a tempo indeterminato rimasto da firmare (conosco a menadito le strade e le autostrade d’Italia, ma quella proprio non era la mia strada). E poi sono approdata alla mia scuola e non mi sono più mossa, come mi ha ricordato Gianluca V. Negli ultimi cinque anni ho insegnato proprio nella mia scuola, la scuola, cioè, dove sono stata anche studentessa, c’ero persino quando è stata inaugurata la nuova sede mentre frequentavo la seconda media con uno spettacolo teatrale in cui ero la protagonista (toccò a me per puro caso, con un’estrazione, e, soprattutto, parliamoci chiaro, chi a dodici anni vuole interpretare una martire santa?!), la mia professoressa di lettere diventò poi la Preside di questo stesso istituto ed ora che non lo è più, quando passa per salutare, ogni volta che mi incontra nei corridoi, mi ricorda la mia interpretazione da santa in quello spettacolo teatrale di decenni fa. La scuola dove lavoro, inoltre, dista solo trecento metri dalla casa dei miei genitori e di mia nonna, con la quale ho vissuto per tutta l’infanzia e l’adolescenza. Infine sono piena di parenti, sono dovunque intorno alla scuola.

Prova fotografica, santa su “Avvenire”

E pensare che da ragazzina sono scappata di casa un sacco di volte, l’ultima ho passato una notte sotto un ponte dell’Aniene, pioveva, ero da sola, ma non ho avuto paura, ero solo molto, molto arrabbiata. Ho viaggiato tanto dai diciotto anni in poi, contro il volere dei miei. Mi sono pagata da sola gli ultimi anni di Università, grazie a un piccolo lascito di mia nonna e alle ripetizioni. Ho messo il piercing al naso a diciannove anni, un cerchietto, quando non era una moda, e mia madre si è sentita male quando mi ha visto. Già le era successo quando a quattordici anni ho rasato i capelli a zero e ho messo la cravatta. A ventiquattro anni, alla morte di mia nonna, sono tornata a vivere in famiglia, ma già a ventisette sono andata di nuovo via per vivere con il mio compagno. I miei migliori amici sono stati i libri e i film. E soprattutto la poesia, a diciassette anni ero abbonata alla rivista Poesia di Crocetti. Ho sempre voluto parlare di letteratura e insegnarla.

Poi sono cresciuta, senza neanche veramente rendermene conto, l’adolescente incazzata sì è placata. È nato il mio primo figlio, poi un altro, ho iniziato a lavorare con regolarità in scuole vicino a casa fino ad entrare di ruolo, ho imparato a cucinare (cucinare, vabbè), ho mollato la scrittura, che ho ripreso per necessità dieci anni più tardi, ho tolto il cerchietto al naso. Ho continuato a leggere e a vedere film, a comprare poesia cercandola negli scaffali più nascosti delle librerie, ma senza quell’ansia di conoscenza che mi faceva sentire sempre un po’ su di giri, come in un film di Terry Gilliam. Ho fatto pace con i miei demoni e con mia madre. Mi è piaciuto lavorare nella mia vecchia scuola e il materiale umano con cui mi sono confrontata e con il quale sono cresciuta in questi anni, i mie alunni, mi ha generato una meraviglia costante. Ma non ho vocazione di martirio e santità, già allora la mia interpretazione fu pessima.

Per questo motivo quest’anno ho deciso di cambiare: ho fatto domanda per passare alle scuole superiori ed ho ottenuto il passaggio di ruolo in una scuola della mia città, ma lontano e dalla parte opposta rispetto alla mia scuola media, una scuola enorme con un bacino d’utenza che prende paesi limitrofi, una scuola in cui non conosco nessuno. Niente di eccezionale, ma per me una sfida, un cambiamento.

Voglio uscire da questa scuola.

È entrata una ragazzina nel bar, forse per sbaglio Gianluca V., ma ecco che si avvicina al biliardino.

Il buco

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I buchi neri più piccoli potrebbero risultare in realtà più facili da scoprire che quelli più grandi!

(Stephen Hawking)

Non riuscivo a distogliere l’attenzione da quel buco. Era piccolo, sulla spalla destra e calamitava il mio sguardo, in alto, vicino all’orlo della maglietta bianca. Il fastidio che mi provocava quel buco, piccolo, come una nera capocchia di spillo sulla maglietta bianca di cotone, mi dominava. Sorrisi a Noemi, distrattamente, con il pensiero e gli occhi al buco. Come faceva una persona così curata nell’aspetto a non aver notato quella mattina quel buco nella maglietta e a portarlo con quella noncuranza? Come poteva darmi così fastidio una cosa che lei ignorava bellamente? Noemi lo sapeva e non le importava? Pensava che nessuno lo avrebbe notato? Oppure se lo era fatto quella mattina stessa e ne ignorava l’esistenza? Dovevo dirglielo? Era una cosa che valeva la pena inserire in una conversazione? E se sì, come?

“Hai un buco qui, sulla maglietta, vicino al collo”, avrei detto con noncuranza, indicando il punto esatto e girandomi subito dopo per sistemare un libro dei nuovi arrivi sullo scaffale. Si sarebbe offesa? Avrebbe portato una mano sul buco a coprirlo? Avrebbe provato imbarazzo? Forse mi avrebbe raccontato come era accaduto.

Io e Noemi lavoravamo insieme in quella libreria Mondadori a piazza Mazzini ormai da un paio d’anni. Il proprietario era un cinquantenne impegnato in diverse attività, il signor Attili, il quale passava a trovarci raramente, avevamo la sua piena fiducia per la gestione della libreria, eravamo state assunte perché avevamo entrambe esperienza come commesse in altre librerie del centro ed eravamo le uniche commesse stabili, poi c’erano gli stagionali che ci aiutavano da settembre a Natale, quando la clientela aumentava con l’inizio della scuola e soprattutto con le festività natalizie. Non si poteva dire che io e Noemi fossimo proprio amiche, fuori dall’orario di lavoro non trascorrevano del tempo insieme, anche perché Noemi era sposata ed io divorziata da qualche anno e single, né ci scambiavamo confidenze, che so, sulla nostra vita sessuale o sulle nostre convinzioni politiche, ma le nostre chiacchiere erano un modo divertente di passare il tempo, soprattutto negli interminabili pomeriggi invernali, magari piovosi, in cui nella libreria entrava poca gente per lo più ragazzini in cerca di fumetti o libri da leggere per scuola o per acquistare qualche regalo che con la lettura non c’entrava niente, come le tazze di Harry Potter per la colazione o i panni per la pulizia degli occhiali che tiravano più dei libri.

C’eravamo divise equamente la libreria, due grandi stanze lunghe, senza finestre, a me spettava la stanza iniziale all’entrata con la narrativa italiana e straniera, i classici e le ultime uscite, con meno libri dell’altra stanza, ma più impegnativa, erano i libri che si vendevano maggiormente e spesso i clienti volevano un parere su questo o quell’autore. Ci alternavamo alla cassa mattina e pomeriggio. Parlavamo fra noi soprattutto dei clienti, quelli insopportabili che sembravano entrare appositamente per essere sgradevoli con noi e i nostri preferiti: il mio era un vecchio professore di filosofia quasi cieco che passava in libreria ogni sabato mattina e che mentre pagava applicava l’arte della maieutica a tutte le persone in fila alla cassa, la sua una ragazzina obesa e con la frangetta e i capelli rosa appassionata di poesia che chiedeva qualche nuovo autore arrossendo come se avesse chiesto un porno.

Quella mattina avevamo aperto la libreria alle nove dopo aver preso di fretta un cappuccino al bar accanto alla libreria. Il nuovo barista era un bel ragazzo con il ciuffo e il pizzetto neri, mi aveva invitata ad uscire un paio di volte, ma qualcosa nel suo modo di scherzare e l’atteggiamento troppo sicuro mi avevano dissuaso dall’accettare i suoi inviti. Pensavo che in fondo ci provasse con tutte, come il mio ex-marito, con una precisa strategia, a furia di insistere qualcuna si faceva sempre convincere, magari per distrazione, per vanità o per curiosità.

Il mio pensiero abbandonò subito il dongiovanni del bar accanto per tornare al buco. Noemi si era spostata verso la stanza di fondo per risistemare alcuni libri di cucina e ora non vedevo più il suo buco. Ma l’idea del buco continuava ad ossessionarmi. Se non lo vedevo più il buco esisteva o non esisteva? Se fosse stato un piccolo insetto e quando fosse tornata non fosse più stato al suo posto, al posto vicino al collo che nella mia mente ancora aveva, non dovevo più considerarlo un buco o poiché la mia percezione iniziale era stata di un buco sarebbe rimasto buco per sempre? Un buco non è materia, ma assenza di materia con la materia tutta intorno. Però si può riempire o ci si può passare attraverso. Pensai di proporre a Noemi un rammendo, l’avrei riempito io. Avevo un ago apposito, eredità di una mia nonna, una specie di punteruolo con la punta ricurva che una volta avevo usato per rammendare una maglietta a cui ero particolarmente affezionata.

“Se mi dai la maglietta la porterò a casa e farò un rammendo al buco che ho notato da quando hai tolto il cappotto stamattina. Te la riporterò domani. Senza buco.” Avrei parlato velocemente, come se quel buco non fosse poi così importante. Invece acquistava nella mia mente sempre più importanza tanto che fissavo imbambolata le spalle di Noemi. Ma quel buco era un foro o una cavità? Cioè, era una piccola apertura superficiale o, supponendo di entrarci dentro, sarei precipitata nella materia-maglietta?

Nella libreria c’erano alcuni scaffali a cui poteva essersi agganciata con la maglietta, soprattutto quello della libreria in fondo che aveva i libri e giochi per bambini. L’angolo sporgeva affilato, pericoloso per i piccoli lettori, infatti era in programma di spostare quella parte della libreria nell’altra stanza e di mettere i libri in lingua straniera lì in fondo. Forse si era chinata per riporre uno di quei libri per bambini con la copertina cartonata e qualche principessa bionda come protagonista e si era agganciata. Tirandosi indietro non si era neanche accorta d’aver bucato la maglietta. Ma più probabilmente era successo a casa, una tarma nell’armadio. Da quel giorno Noemi avrebbe portato sempre magliette bucate, si sarebbe lamentata di quella tarma che girava per il suo armadio bucando i suoi vestiti migliori.

“Non riesco a scovarla! Mi ha rovinato decine di magliette. Ho tirato fuori tutto, disinfettato e poi risistemato i miei vestiti nell’armadio, ma ogni tanto continuo a tirar fuori magliette bucate.”

Avremmo cercato insieme sul pc vicino alla cassa come stanare e sconfiggere la tarma. Usare la permetrina era fuori questione, troppo pericolosa per la gatta che Noemi e il marito avevano adottato da qualche mese. Meglio il ghiaccio secco. Avremmo letto che le tarme preferiscono tessuti sporchi e Noemi si sarebbe offesa. Effettivamente era una persona che teneva alla pulizia in un modo maniacale.

Il buco poteva essere uno schizzo di caffè. In mattinata Noemi aveva messo il caffè sul fuoco mentre si preparava, era uscita correndo dal bagno sentendo la moka borbottare, imprecando contro il marito infermiere che ancora dormiva perché aveva il turno pomeridiano quel giorno. Aveva preso un cucchiaino per girare il caffè nella moka prima di versarlo nella sua tazzina preferita, ma quando aveva alzato il coperchio era stata investita da qualche schizzo bollente di caffè. Si era tirata indietro pensando di averla scampata senza accorgersi che uno schizzo era finito sulla maglietta, proprio sotto il collo. Aveva bevuto velocemente il suo caffè scottandosi la lingua, poi era corsa via infilandosi il cappotto senza buttare neanche un’occhiata alla sua immagine riflessa nello specchio dell’ingresso accanto alla porta, un ciao urlato al marito che mugugnava qualcosa dal letto.

Quando Noemi si voltò per tornare verso la cassa fui presa dalla frenesia di rivedere il buco per accertarmi che fosse ancora lì e che fosse realmente un buco, non un animale o una macchia. Fui distratta dall’arrivo di un adolescente, dodici o tredici anni, con l’apparecchio ai denti e gli occhiali che reclamava la mia attenzione.

“Signorina, signorina…”sussurrò dapprima timido, poi iniziò a schiarirsi la voce con un suono così sgradevole che lo guardai allarmata.

“Ho un problema” dichiarò velocemente e non so se fosse per l’apparecchio che non lo capissi bene o se fosse lui a squittire come un topo invece di parlare. La mia antipatia cresceva sempre più e speravo di poter tornare prima possibile con gli occhi e con il pensiero al mio buco.

“Allora?” lo incalzai spazientita.

“Mio padre mi ha regalato il pacchetto Zero Assoluto” disse squittendo a modo suo “Il Piccolo Gelone, il Deltaplano del ponte freddo. Lo ha preso proprio qui, da voi”, continuò indicando l’ espositore ruotante davanti alla cassa con qualche dvd.

“Cosa è successo?”

“Da ieri sera mi ha rotto Fortnite” singhiozzò all’improvviso, tirando fuori dalla tasca dei jeans il suo cellulare Samsung e mostrandomi lo schermo unto e graffiato. Esattamente al centro dello schermo nero c’era un buco, perfetto come il foro di un proiettile, ancora fumante, azzurrino intorno. Un buco su uno schermo è sempre un buco?

(Foto dal film “Funny face”, Stanley Donen)

Inverni

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Le malinconie ho vissuto

le nebbie

i solitari luoghi

le calde mani sul culo freddo

e gli abbandoni

i sussurri sui baveri

le parole-groppo in gola

una certa tristezza

e dimenticanza incerta.